Stress lavoro-correlato e straining: la fusione in atto tra materiale legislativo e nuovo formante giurisprudenziale  


(Da Rivista Labor – 5 Settembre 2022)

(di Domenico Tambasco)

Le decisioni  in commento confermano una tendenza già da tempo in atto nel diritto vivente: stiamo parlando della progressiva evoluzione della categoria giurisprudenziale dello straining, passato ormai quasi definitivamente dal “mobbing attenuato allo “stress forzato” (si veda TAMBASCO, La nuova vita dello straining, dal “mobbing attenuato” allo “stress forzato”, in Labor, 29 maggio 2022).

In particolare l’ordinanza della Corte di Cassazione civile, sez. VIª, 5 agosto 2022, n. 24339, nel disconoscere nel caso di specie l’esistenza del mobbing per l’assenza dell’intento persecutorio, incidentalmente menziona lo straining definendolo come l’inadempimento datoriale al precetto dell’art. 2087 allorché «il lavoro si manifesti in sé nocivo per la connotazione indebitamente stressogena», trattandosi di responsabilità dai «parametri più ampi» rispetto alla fattispecie del mobbing, configurabile in caso di «inadempimento anche solo colposo».

La trasformazione rispetto alle origini è tanto evidente quanto radicale: si passa infatti da una species di condotta persecutoria distinguibile dal mobbing solo per l’elemento oggettivo, essendo sufficiente la frequenza anche isolata della condotta, purché con effetti duraturi (cfr. Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977; in dottrina, EGE, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità lavorativa, Milano, 2005, p.70 e ss.), ad un nuovo genus pretorio, che ricomprende ogni condotta datoriale comportante «la costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo» (cfr. Cass., 29 marzo 2018, n. 7844, cit.; conf. Cass., 4 ottobre 2019, n. 24883; Trib. Milano, 23 aprile 2019, n. 1047; Trib. Pavia, 22 maggio 2020, n. 85; Trib. Tivoli, 6 ottobre 2020; Trib. Savona, 15 aprile 2021, n. 63), rilevabile «nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori» (cfr. Cass., 23 maggio 2022, n. 16580).

Si può dunque ravvisare in nuce, nell’incessante fluire del diritto vivente, la creazione di un nuovo “formante”; possiamo scorgere, in controluce, i tratti embrionali di un inedito stampo giurisprudenziale entro cui “colare” la materia legislativa – ancora pressoché inutilizzata – dello “stress lavoro-correlato”, oggi relegato nell’angusto spazio dell’art. 28, comma 1, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. Non è un caso, del resto, che l’isomorfismo espresso dai vocaboli straining stress sia manifestato dalla condivisione della medesima radice linguistica (str-) e semantica (entrambi significando sforzo, sollecitazione, tensione). 

Potenzialmente, quindi, la nuova veste dello straining è di per sé “omnicomprensiva”, idonea com’è a coprire sia i “fattori di contenuto del lavoro” sia i “fattori di contesto del lavoro” (distinzione enunciata nella lettera circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 18.11.2010), ovverosia –prendendo in prestito la tripartizione proposta da DEL VECCHIO, Il danno da stress e usura psicofisica, in I danni nel diritto del lavoro, a cura di BELLOCCHI, LAMBERTUCCI, MARASCA, Milano, 2022, p. 301 e ss.- tutte quelle cause di stress lavorativo dolosamente o anche solo colposamente imputabili all’organizzazione del lavoro e collegate alla dimensione quantitativa della prestazione (carichi e ritmi di lavoro oltre l’ordinaria tollerabilità, burn-out, inattività lavorativa o bore-out), alla dimensione qualitativa o alla posizione del lavoratore nel contesto lavorativo (mancanza di autonomia decisionale e di controllo, mancanza di evoluzione e di sviluppo di carriera, omissione delle informazioni necessarie allo svolgimento del lavoro, isolamento, demansionamento) e ai fattori inerenti i rapporti interpersonali (persecuzioni lavorative, vessazioni, violenze, molestie, discriminazioni).

L’altra faccia della medaglia è ben raffigurata dalla sentenza del Tribunale di Teramo, 22 febbraio 2022, n. 89, che nella definizione delle medesime categorie concettuali registra tuttavia un movimento uguale e contrario. Facciamo riferimento, più precisamente, alla decisione del giudice di merito di “espandere” i confini del mobbing a quella che, fino a poco tempo fa, era l’abituale area operativa dello straining: la singola condotta persecutoria con effetti permanenti, ovvero la dequalificazione professionale.

Nel caso di specie, infatti, il tribunale teramano ha ravvisato gli estremi della fattispecie mobbizzante nella condotta del rettore universitario che per ben quattro anni, dal 2014 al 2018, ha posto in essere una condotta vessatoria ai danni del ricorrente, sfociata <<nel sostanziale svuotamento delle mansioni assegnate e nell’isolamento lavorativo>>: ipotesi, come abbiamo detto, che per giurisprudenza conforme ha sempre rappresentato un caso tipico di straining (cfr., ex multis, Trib. Bergamo, 20 giugno 2005, n. 286; Cass., 29 marzo 2018, n. 7844; App. Brescia, 8 gennaio 2021, n. 184; Trib. Vibo Valentia, 26 maggio 2021, n. 346), configurabile quando <<la condotta nociva si realizza con più azioni, ma prive di continuità (e in casi eccezionali anche con un’azione unica ed isolata)>> (cfr. App. Brescia, 8 gennaio 2021, n. 184, cit.).

La lettura combinata delle due pronunce, pertanto, manifesta in azione un movimento “contrappositivo”, dove la categoria dello straining da un lato si espande sino ad assumere forme quasi sovrapponibili all’intero perimetro di tutela disegnato dall’art. 2087 c.c. e dall’altro, invece, si ritrae lasciando spazio -nello specifico campo delle condotte persecutorie- all’allargamento del mobbing.

Nella sentenza della Corte di Cassazione in commento rilevano altri due temi, risolti conformemente agli orientamenti consolidati in materia.

In particolare, quanto all’intento persecutorio, la pronuncia ribadisce come esso si configuri quale elemento “qualificante” e “costitutivo” della fattispecie mobbizzante, il cui concreto accertamento, tuttavia, non può essere devoluto al giudice di legittimità, avendo «la sostanza di una diversa valutazione di merito sul significato dei fatti e dell’accaduto, improprio rispetto al giudizio di legittimità (C., SU, 34476/2019; C., SU, 24148/2013)».

Quanto, infine, al tema della “conflittualità lavorativa” (si rimanda a TAMBASCO, Condizioni ambientali e personali di esclusione dell’intento persecutorio: quando viene negato il mobbing o lo straining, Il Giuslavorista, fasc. 12 luglio 2022), la motivazione in esame conferma l’impostazione della giurisprudenza dominante, che vede nei contrasti tra colleghi di lavoro e più in generale nel “clima di tensione lavorativa” una possibile causa di esclusione del mobbing.

Questo perché, secondo l’orientamento consolidato sia di merito che di legittimità, gli screzi e i conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro valgono di per sé ad escludere la volontà persecutoria (cfr., ex multis, Cass., 3 giugno 2022, n. 17974; Cass., 14 ottobre 2021, n. 28120; Cass., 23 marzo 2020, n. 7487; Cass., 5 dicembre 2018, n. 31485; Cass., 10 novembre 2017, n. 26684; Cass., 21 aprile 2009, n. 9477; Trib. Isernia, 6 giugno 2022, n. 13; Trib. Roma, 10 novembre 2021, n. 9247; Trib. Pavia, 22 maggio 2020, n. 85), sebbene un diverso filone giurisprudenziale abbia correttamente rilevato che pur a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori (cfr. Cass., 12 luglio 2019, n. 18808).

Del resto, con riguardo all’impiego pubblico, permane l’obbligo del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., 2 Cost. e 97 Cost. di intervenire in chiave preventiva o quantomeno risolutiva dei contrasti eventualmente sorti sul luogo di lavoro tra dipendenti: contrasti che, nel generare uno stato di conflitto, non soltanto sono lesivi della dignità umana di tutti i soggetti coinvolti ma, di più ed oltre, comportano anche la violazione del cogente dovere di buon andamento della Pubblica Amministrazione (cfr. Trib. Forlì, 6 febbraio 2003).