(Dal Corriere Della Sera – 11 Aprile 2018)
Contro la dipendente cinque anni di battute volgari e oscene. La sentenza configura una specie di mobbing sessuale. «Un autentico inferno lavorativo e umano», ha spiegato la donna davanti ai giudici. A lei un maxi risarcimento.
Il piccolo imprenditore, settore tessile, azienda in alta Lombardia, un giorno intonò pure una canzonetta: su una melodia dei Cugini di campagna («Anima mia»), «rivisitò» il testo per descrivere un rapporto sessuale tra la sua dipendente e un uomo di colore. Alla stessa impiegata riservava battute continue, pronunciate davanti ai colleghi: «Con te avrei paura di fare sesso, secondo me gli uomini li distruggi», «usi giocattoli erotici». Il campionario virava spesso al greve: «Ti metterei un cuscino sulla faccia e…». Non si tratteneva neppure con i fornitori: «Facciamo un cambio merce, io ti do lei», o di fronte ad altri impiegati durante le fiere, quando annunciava una (mai concessa) disponibilità sessuale della sua dipendente e invitava: «Dai, andiamo tutti con lei nello sgabuzzino». È durato cinque anni (2008-2013) questo «autentico inferno lavorativo e umano», come ha spiegato la donna davanti ai giudici. E s’è chiuso con una decisione appena depositata dalla sezione lavoro del Tribunale civile di Como. Una sentenza contro l’imprenditore che presenta almeno un paio di aspetti inediti: una condanna per molestie esclusivamente verbali (praticamente senza alcun contatto o approccio fisico), tanto da configurare una sorta di mobbing sessuale. E poi l’entità del risarcimento, 105 mila euro, circa 150 mila con le spese.
L’imprenditore, una ventina di dipendenti, ha denunciato la donna per calunnia (poi archiviata) e ha provato a sostenere che in azienda si viveva soltanto un clima informale e goliardico. L’impiegata ha denunciato a settembre 2013 e si è infine dimessa a luglio 2014. È stata assistita dal legale Domenico Tambasco, con la consulenza di parte di Harald Ege (un’autorità in materia, lo studioso che ha introdotto il termine mobbing in Italia) e il sostegno della consigliera di pari opportunità della provincia di Como. Da anni aveva attacchi di panico, è stata costretta a prendere psicofarmaci prescritti dal suo medico, è stata visitata da altri specialisti; al consulente nominato dal Tribunale, ha spiegato: «Le molestie mi infastidivano da morire, ma avevo il mutuo da pagare, c’era la crisi e non era facile trovare un altro lavoro».
Proprio l’esperto incaricato dal giudice ha individuato nella donna «sentimenti di auto-svalutazione e colpa (conseguenze che si verificano spesso nelle vittime di molestie o aggressioni sessuali, ndr). La signora si auto accusava di non avere avuto la capacità di valutare l’altro e di prevenirne i comportamenti scorretti». Il medico ha concluso la sua perizia con una diagnosi di «distimia»: una sorta di «depressione cronica, più lieve nei sintomi rispetto alla depressione maggiore, ma prolungata nel tempo». Una condizione della quale «le condizioni negative di lavoro sono state indubbiamente causa». È anche in base a quella perizia che i giudici scrivono in sentenza: «L’essere oggetto anche solo di battute volgari, oscene, alla lunga intollerabili da parte del datore di lavoro, risulta oggettivamente lesivo del rispetto dovuto a qualsiasi donna e può sicuramente rendere l’ambiente di lavoro ostile, degradante e umiliante».