Molestie e rapporti di potere: la nullità di atti, patti o provvedimenti in contesti di sottomissione


Quando il consenso della vittima può dirsi realmente libero?
Un recente contributo pubblicato su Il Sole 24 ore- Guida al lavoro, chiarisce come la giurisprudenza più recente abbia evidenziato che, nel contesto lavorativo, la mera assenza di opposizione non equivale a consenso, specie quando la vittima si trova in una condizione di sottomissione o di dipendenza gerarchica. Numerose sentenze – tra cui App. Catanzaro n. 1832/2018 e App. Torino n. 150/2025 – hanno riconosciuto che atteggiamenti solo apparentemente remissivi o risposte di cortesia non valgono come adesione volontaria, ma spesso rappresentano strategie di sopravvivenza in un contesto ostile.
In questa prospettiva, la tutela si sposta dal piano della volontà formale a quello della dignità personale, riconoscendo che il potere può deformare la libertà di scelta. L’ordinamento, anche alla luce della Convenzione OIL n. 190/2019 e della direttiva UE 2006/54, considera quindi nulli gli atti, patti o provvedimenti nati da una condizione di soggezione, riaffermando che il vero discrimine non è nel consenso espresso, ma nella capacità effettiva di autodeterminarsi.
Ne emerge un principio di civiltà giuridica: la libertà negoziale cede il passo alla tutela della persona, che diventa il centro del sistema di protezione contro molestie e abusi di potere.