La tutela giurisdizionale contro le discriminazioni: analisi della giurisprudenza di merito


(Da Rivista Labor – 12 Aprile 2022)

Due recenti pronunce di merito intervenute in materia di discriminazioni di genere sul lavoro, portano all’attenzione il tema dei poteri – e dei relativi limiti – inerenti ai rimedi giurisdizionali approntati dall’ordinamento giuridico per il contrasto delle condotte lesive della parità di trattamento.

In particolare, il decreto del Tribunale di Roma, 23 marzo 2022, viene ad esaminare la denuncia di due assistenti di volo che lamentavano di non aver potuto svolgere la procedura di selezione né di essere state assunte dalla nuova compagnia aerea (succeduta alla precedente di cui erano dipendenti) a causa del loro stato di gravidanza. A tal fine, deducevano che tutte le lavoratrici che si trovavano in stato di gravidanza o in astensione obbligatoria per maternità non erano state chiamate dalla nuova società (indicando in particolare i nominativi di sei colleghe nella medesima situazione) e che comunque i criteri adottati nella scelta erano del tutto oscuri, avendo la società preferito altre lavoratrici con minore anzianità ed esperienza nel ruolo lavorativo.

L’argomentata ed approfondita motivazione del provvedimento parte da un’importante premessa: l’operatività della tutela antidiscriminatoria anche nella fase preassuntiva di selezione, attraverso il duplice riferimento sia al chiaro disposto legislativo (art. 27 comma 1 e comma 2, lett. a), d.lgs. 198/2006) sia alla consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale ha più volte chiarito che l’ambito di applicazione dei divieti di discriminazione investe anche la fase anteriore all’assunzione, tenuto conto della rilevanza che l’accesso al lavoro riveste nella vita personale, analogamente a quello della perdita del lavoro conseguente al licenziamento (Corte giust., 14 marzo 2017, causa C-188/15, Bagnaoui; Corte giust., 8 novembre 1990, C-177/88, Dekker; Corte giust., 3 febbraio 2000, causa C – 207/98, Silke Karin Mahlburg). Principi ribaditi anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che da ultimo con sentenza 26 febbraio 2021, n. 5476, ha affermato che «poiché soltanto le donne possono rimanere incinte, il rifiuto di assumere o il licenziamento di una donna incinta per il suo stato di gravidanza o maternità costituiscono una discriminazione diretta fondata sul sesso che non può essere giustificata da alcun interesse, compreso quello economico del datore di lavoro».

Viene inoltre riaffermata la natura oggettiva della condotta discriminatoria vietata ex lege, non essendo richiesta la prova che chi l’ha posta in essere lo abbia fatto con intenti consapevolmente discriminatori (l’art. 40 d.lgs. n. 198/2006, infatti, ancora il contenuto dell’onere probatorio ad elementi oggettivi, senza che si possa intendere esteso all’elemento soggettivo di chi pone in essere questi comportamenti, cfrCass., 5 aprile 2016, n. 6575), in caso contrario determinandosi «un aggravamento dell’onere di portata tale da rendere la tutela ben difficilmente azionabile».

Ne deriva, pertanto, la sufficienza delle allegazioni formulate dalle ricorrenti in ordine alla propria condizione e a quella di altre sette lavoratrici in condizione analoga, in conformità alla natura “attenuata” dell’onere probatorio di cui al citato art. 40 d.lgs. 198/2006: rimane pertanto fermo per l’attore l’onere della prova, ma l’assolvimento dello stesso richiede il conseguimento di un grado di certezza minore rispetto a quello consueto. In sintesi: dimostrati i fatti che fanno ritenere probabile la discriminazione, spetta alla controparte dimostrarne l’insussistenza (ex plurimis, Cass., 5 giugno 2013, n. 14206; Cass., 15 novembre 2016, n. 23286; Cass., 27 settembre 2018, n. 23338; Cass., 12 ottobre 2018, n. 25543; Cass., 2 novembre 2021, n. 31054; App. Milano, 17 giugno 2020, n. 380). Ciò che rileva, pertanto, è che gli elementi di fatto addotti dalla vittima abbiano i caratteri della precisione e della concordanza e che da essi possa desumersi, in via presuntiva, che la discriminazione abbia avuto luogo, così da far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrarne l’insussistenza (App. Milano, n. 380/2020, cit.). Insussistenza che nel caso di specie la società resistente non ha provato, non avendo fornito i nominativi delle assistenti di volo –tra le 412 assunte- che al momento dell’assunzione erano in gravidanza. Il pur corretto riferimento del giudicante ai dati statistici ISTAT sul rapporto tra donne in età fertile e numero delle nascite (da cui si desume che almeno 6 o 7 donne in gravidanza avrebbero dovuto essere assunte), dunque, non è nel caso specifico determinante per il concreto riparto dell’onus probandi.

Ciò che tuttavia più rileva nella pronuncia in esame –lo abbiamo anticipato all’inizio- è il fatto che il giudicante, una volta accertata la discriminatorietà diretta della condotta consistente nella mancata assunzione delle lavoratrici in gravidanza, riduce drasticamente il raggio della tutela applicabile nel caso concreto, limitandola al solo rimedio risarcitorio; questo in ragione della dichiarata impossibilità di disporre la costituzione coattiva del rapporto di lavoro, poiché «verrebbe a confliggere con le prerogative riconosciute al datore di lavoro in base ai principi espressi dall’art. 41 Cost.» Naturale conseguenza di tale impostazione, quindi, è la concentrazione della tutela nel solo rimedio risarcitorio (in misura di 15 mensilità, corrispondenti al periodo di astensione antecedente il parto e i mesi successivi alla nascita dei figli), valendo non soltanto a ristorare la perdita di chance subita dalle lavoratrici ma esprimendo anche «una valenza dissuasiva perché elide il vantaggio che la società resistente ha intesto assicurarsi evitando l’assunzione di assistenti di volo in gravidanza, per le quali la presenza sul luogo di lavoro sarebbe stata sospesa per la durata del tempo a cui la condanna viene commisurata»

Ad una prima lettura, il provvedimento appare certamente pregevole nella definizione del compendio risarcitorio in chiave dissuasiva (aderendo all’orientamento ormai prevalente in materia, cfr. in ambito comunitario cfr. Corte giust., 10.04.1984, causa C-14/83, Von Colson; Corte giust., 22.04.1997, Urania; Corte giust., 6 febbraio 2007, causa 54/07, Centrum; Corte giust., 25 aprile 2013, causa 81/12 Asociatia Accept; Corte giust., 23 aprile 2020, causa 507/18; nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass., 2 novembre 2021, n. 31071; Cass., sez.un., 21 luglio 2021, n. 20819; Cass., 15 dicembre 2020, n. 28646; nella giurisprudenza di merito, ex plurimis, Trib. Firenze, 22.10.2019; Trib. Ferrara, 31 marzo 2021, est. Bighetti; Trib. Bologna, 31 dicembre 2020, est. ZompìTrib. Bergamo, 30 marzo 2018, est. Bertoncini; Trib. Firenze, 20 aprile 2016, est. Papait; Trib. Ascoli Piceno, 25 marzo 2016, n. 22; App. Trento, 23 febbraio 2016; Trib. Firenze, 9 novembre 2015, est. Santoni Rugiu; Trib. Bergamo, 8 agosto 2014, est. Bertoncini; Trib. Pistoia, 12.07.2012, est. Tarquini), rivelandosi tuttavia alquanto “conservativo” nel contrasto degli effetti prodotti dalla condotta discriminatoria. Nel caso di specie, pur non potendo disporre coattivamente la costituzione del rapporto di lavoro, il giudicante ben avrebbe potuto comunque obbligare la società resistente a sottoporre le ricorrenti alla procedura preassuntiva, vincolandola a adottare criteri selettivi non discriminatori, anche attraverso l’imposizione di uno specifico piano di rimozione delle discriminazioni. Ciò, considerando non soltanto il chiaro disposto dell’art. 38 d.lgs. 198/2006 («il tribunale…….ordina all’autore del comportamento denunciato….la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti»), ma anche e soprattutto i principi generali dell’ordinamento giuridico che, in un’ottica “promozionale” e di effettiva attuazione dei diritti fondamentali della persona (art. 3 comma 2 Cost.; art. 47 CDFUE), vincola la libera iniziativa economica privata all’impreteribile rispetto della libertà e della dignità umana (art. 41, comma 2, e art. 32, comma 2, Cost.).

La seconda pronuncia in esame, emessa dal Tribunale di Bologna con decreto del 31 dicembre 2021), riguarda il caso di una discriminazione indiretta e collettiva di genere relativa all’orario lavorativo imposto alle lavoratrici madri con figli minori, impugnata dalla Consigliera per la Parità della Regione Emilia-Romagna ex art. 37 d.lgs. 198/2006. In particolare, si lamentava che l’avvicendamento nella gestione di un appalto relativo ai servizi di magazzino avesse comportato un mutamento dell’orario lavorativo tale da pregiudicare, in concreto, tutte le donne lavoratrici con figli minori, costringendole de facto a rassegnare le dimissioni o a rifiutare l’assunzione (il cambiamento orario, infatti, si sostanziava nel passaggio da un turno centrale articolato dalle 8.30 alle 17.30 a due turni  organizzati nella fascia 5.30-13.30 e 14.30-22.30).

Viene in rilievo in primo luogo la chiara distinzione teorica operata, nel corpo della motivazione, tra discriminazione diretta e indiretta; in particolare, sebbene l’ispezione della ITL di Bologna avesse negato la sussistenza di una condotta direttamente discriminatoria nei confronti delle lavoratrici dimissionarie escludendo da parte della società resistente la violazione della normativa di legge, tuttavia ciò di per se stesso non implicherebbe l’insussistenza di una fattispecie di discriminazione indiretta. Il giudicante infatti, richiamando una consolidata giurisprudenza (a livello europeo, Corte EDU, 13 novembre 2007, D.H. c. Repubblica Ceca; Corte EDU, 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia; Corte EDU, 20 giugno 2006, Zarb Adami c. Malta; nella giurisprudenza di legittimità, Cass., 25 luglio 2019, n. 20204) afferma che «la verifica della eventuale sussistenza di una discriminazione di genere indiretta, infatti, implica valutazioni che prescindono dalla violazione di norme di legge»; questo perché «la discriminazione indiretta si realizza attraverso una condotta , una prassi, un atto aziendale di per sé leciti, e quindi conformi alle normative di tutela dei lavoratori in generale…., che però realizzano l’effetto di porre una categoria di lavoratori, quella portatrice del cd fattore di rischio….in una situazione di particolare svantaggio»Questo, si badi bene, anche nel caso di specie in cui la società aveva concluso due accordi sindacali aventi ad oggetto azioni positive migliorative in favore delle lavoratrici madri: se gli effetti negativi permangono, tutto ciò risulta irrilevante ai fini dello scrutinio giudiziale.

Di particolare interesse, nella pronuncia in oggetto, risulta anche l’applicazione del già citato art. 40 d.lgs. n. 198/2006: il giudice ha infatti ritenuto sufficiente, per provare l’effetto pregiudizievole del nuovo orario di lavoro su due turni, la prova per testi delle lavoratrici (che hanno tutte confermato le gravi problematiche nella gestione dei figli), oltre all’utilizzo delle massime di comune esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.), sulla base della considerazione secondo cui «il passaggio da un orario di lavoro su turno unico centrale (sostanzialmente coincidente con gli orari scolastici) ad un orario su doppio turno, il primo dei quali con inizio ad ore 6.00 del mattino… e il secondo con termine alle 22.00…impatti molto più pesantemente sui lavoratori con figli minori e in particolare sulle lavoratrici madri, tradizionalmente e usualmente maggiormente impegnate nella cura della prole, piuttosto che su colleghi senza figli o con figli autonomi ed autosufficienti».

La mancata prova del contrario ad opera della società resistente (che non è riuscita a dimostrare la sussistenza di una finalità legittima e di mezzi appropriati e necessari al perseguimento di tale finalità), ha quindi comportato l’accertamento della discriminatorietà collettiva di genere della condotta e l’attivazione della relativa tutela, che nel caso di specie ha seguito due direttrici: la prima, relativa alla cessazione del comportamento discriminatorio e alla rimozione degli effetti, che si è sostanziata nell’obbligo di attuazione di un piano di rimozione delle discriminazioni, da attuare sentite le organizzazioni sindacali aziendali o, in mancanza, quelle di categoria maggiormente rappresentative nonché la consigliera di parità regionale competente per territorio. Nella definizione del piano, il provvedimento in esame manifesta la sua attenzione all’effettività della tutela, indicando i criteri cardine del piano consistenti nell’assegnazione delle madri con figli in tenera età (fino a 12 anni) ad un turno centrale, in forme compatibili con la funzionalità e l’organizzazione aziendale e nel rispetto della normativa emergenziale anti-Covid.

La seconda direttrice, invece, afferisce alla classica dimensione risarcitoria (con la liquidazione a titolo di danno non patrimoniale della somma di 5.000,00 euro a favore della Consigliera per la Parità), in cui accanto alla funzione deterrente-dissuasiva viene menzionata anche quella sanzionatorio-punitiva, facendo in quest’ultimo caso riferimento alla categoria del “danno comunitario” enucleata da Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5072, in materia di abuso dei contratti a termine nel pubblico impiego.   

La pronuncia si caratterizza, a differenza della precedente, per un più pieno e consapevole utilizzo dei rimedi giurisdizionali apprestati dall’ordinamento, essendo ispirata alla logica dell’effettività della tutela contro le discriminazioni.

Domenico Tambasco, avvocato in Milano