(Da Rivista Labor – 29 Maggio 2022)
L’ultimo approdo della Corte di Cassazione (Cass., 23 maggio 2022, n. 16580) in materia di straining, suggella in modo quasi definitivo un percorso di progressiva trasformazione di questa fattispecie giurisprudenziale di recente fattura.
È opportuno precisare come si tratti di nozione emersa nell’ambito della psicologia del lavoro, che agli inizi degli anni duemila ha individuato nello “straining” quella «situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante» (EGE, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità lavorativa, Milano, 2005, p.70).
Più precisamente, mentre il mobbing si caratterizza per una pluralità di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso del demansionamento). Il discrimine tra le due fattispecie, dunque, sarebbe soltanto sul piano dell’elemento oggettivo, essendo necessaria, in entrambi i casi, la sussistenza dell’elemento psicologico-soggettivo (ovverosia l’intento persecutorio): restiamo sempre nel genus delle condotte persecutorie (si veda EGE, TAMBASCO, Il lavoro molesto, Milano, 2021, p. 16).
Questa nozione scientifica è stata inizialmente recepita, sic et simpliciter, dalla giurisprudenza di merito in una ormai nota pronuncia del Tribunale di Bergamo, 20 giugno 2005, n. 286, est. Bertoncini, che ha in concreto ravvisato l’esistenza dello straining nel caso di una lavoratrice intenzionalmente demansionata e successivamente ridotta in stato di forzata inattività lavorativa per oltre due anni, attraverso lo spostamento in una postazione lavorativa costituita da un ripostiglio privo di PC e telefono.
Ha così preso avvio un sempre più consistente orientamento giurisprudenziale che, sul solco di un’ermeneutica creativa dell’art. 2087 c.c., ha delineato la fattispecie dello straining nei seguenti casi:
- Lavoratore improduttivo e refrattario alle politiche di incentivazione aziendali, vittima di continui rimproveri e insulti da parte del superiore gerarchico e di due spostamenti di stanza all’interno degli uffici avvenuti a breve distanza l’uno dall’altro, che costringevano il ricorrente a lasciare la stanza più grande e prestigiosa che aveva sempre occupato, prima per un’altra un po’ meno grande e meno bella ma sempre funzionale, e infine per uno stanzino molto piccolo, male attrezzato, e mai fino ad allora (e neppure dopo di allora) utilizzato come ufficio, oltre tutto in favore di personale con minore anzianità e di livello inferiore rispetto a lui; condotte vessatorie cui seguivano, dopo circa 8 mesi, le dimissioni per giusta causa della vittima (Trib. Sondrio, 7 giugno 2007, est. Azzolini);
- Dipendente di un negozio che aveva assunto rilevanti responsabilità di gestione del punto vendita relegata in un modestissimo reparto (ovvero il reparto bambino), insulti delle colleghe con epiteti triviali di fronte ai clienti, minaccia alle colleghe di licenziamento se le si fosse rivolta la parola, interruzioni continue durante il lavoro con motivazioni pretestuose al solo scopo di porre la dipendente in cattiva luce di fronte ai clienti e di perturbarle l’attività di lavoro (Trib. Aosta, 30 settembre 2014);
- Due episodi isolati, consistenti rispettivamente nella consulenza effettuata dalla dottoressa in reparto (nonché ricorrente in causa) senza il consenso del primario, cui il primario reagiva con un atteggiamento aggressivo culminato con il gesto di stracciare la relazione di consulenza della dottoressa e nella mancata consegna da parte dello stesso primario della scheda di valutazione della dottoressa: episodi considerati dal giudicante sintomatici di un atteggiamento ostile e svilente del primario nei confronti della dottoressa ma che, mancando del requisito della frequenza, non configuravano un vero e proprio mobbing bensì lo straining. In tale ipotesi, infatti, “è sufficiente anche un’unica azione ostile purché essa provochi conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori” (, 19 febbraio 2016, n. 3291);
- Condotte tenute da una scuola nei confronti di un’impiegata volte alla immotivata privazione degli strumenti di lavoro, all’assegnazione di mansioni incompatibili con lo stato di salute e alla riduzione in una condizione di umiliante inoperosità (, 19 febbraio 2018, n. 3977);
- Improvvisa estromissione del lavoratore dalla direzione generale accompagnata da un diffuso atteggiamento ostile e di scherno, realizzatosi anche mediante diffusione di lettere offensive diffuse in banca, in assenza di qualsivoglia iniziativa datoriale volta a tutelare il dipendente (Cass., 29 marzo 2018, n. 7844);
- Accertamento di un prolungato demansionamento del lavoratore che veniva definito “uno degli atti tipici in cui si può realizzare il fenomeno dello straining” (App. Brescia, 8 gennaio 2021);
- Dipendente regionale destinatario di annotazioni squalificanti per la propria persona e per la propria professionalità, gradualmente allontanato dal circuito decisionale (nonostante l’iniziale conservazione formale della funzione, poi sottrattagli anche in via ufficiale) e ridotto ad una condizione di progressiva inoperosità, sino ad essere relegato ad una totale inattività lavorativa forzosa per mancanza di incarichi ( Vibo Valentia, 26 maggio 2021, n. 346).
In dottrina si è ravvisata la sussistenza dello straining (definito “straining sportivo”) anche nel caso della “messa fuori rosa” del calciatore professionista per un periodo di almeno 3 mesi, configurandosi un’ipotesi di inattività lavorativa totale particolarmente grave, considerata la peculiare incidenza sulla carriera e sulle capacità professionali dell’atleta (EGE, TAMBASCO, Il lavoro molesto, cit., p. 20-21; si veda, per la particolare rilevanza del danno professionale in determinate professioni come il chirurgo, l’artista o l’atleta, Cass., 9 settembre 2008, n. 22280).
Siamo sempre nel perimetro della persecuzione lavorativa, sebbene sotto l’etichetta -a dire il vero un po’ semplicistica- del “mobbing attenuato” (ex multis, Cass., 10 luglio 2018, n. 18164; Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977; Cass. 4 novembre 2016, n. 3291; rilievi critici su questa riduttiva definizione dello straining vengono mossi in dottrina da EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e straining, Milano, 2019; PEZZINI, La (discutibile) qualificazione dello straining come un minus del mobbing, ma a oneri probatori invariati, Responsabilità civile e Previdenza, fasc. 2, 2020, pp. 496 e ss.). Etichetta che tuttavia trae la sua pratica ragion d’essere dallo sforzo di risolvere la questione processuale sul rapporto tra mobbing e straining: per il principio di continenza, infatti, non costituisce violazione dell’art. 112 c.p.c. la condanna al risarcimento del danno da straining in luogo dell’originaria domanda di condanna risarcitoria per mobbing (RENDINA, Su alcune implicazioni processuali del mobbing, VTDL, fascicolo 4, 2016).
Un radicale mutamento della nozione di straining nel diritto vivente si inizia a registrare a partire dalla pronuncia della Cass., 29 marzo 2018, n. 7844, in cui la fattispecie viene totalmente privata dell’elemento psicologico-soggettivo; più precisamente, nel caso oggetto di esame da parte del giudice di legittimità, venivano sussunte nel paradigma strainizzante una serie di azioni ostili limitate nel numero e distanziate nel tempo, configuranti una situazione stressogena “anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio”.
Il passaggio di senso è rilevante, poiché segna l’inizio di un nuovo orientamento giurisprudenziale –in cui si colloca appunto anche la sentenza in commento- secondo cui lo straining quale stress forzato non si manifesta soltanto in singole condotte vessatorie con effetti permanenti e intenzionalmente realizzate dal datore di lavoro ai danni della vittima, bensì «può anche derivare, tout court, dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all’art. 2087 cod. civ.» (Cass., 29 marzo 2018, n. 7844, cit.; conf. Cass., 4 ottobre 2019, n. 24883; Trib. Milano, 23 aprile 2019, n. 1047; Trib. Pavia, 22 maggio 2020, n. 85; Trib. Tivoli, 6 ottobre 2020; Trib. Savona, 15 aprile 2021, n. 63).
In concreto, pertanto, secondo questo nuovo filone del diritto vivente anche la colposa disorganizzazione lavorativa che cagioni effetti lesivi al lavoratore o alla lavoratrice, quale potrebbe ad esempio essere l’usura psico-fisica derivante dal superlavoro, la mancata fruizione delle ferie e dei riposi previsti dall’art. 36 Cost. o l’assegnazione a una postazione lavorativa priva delle misure minime di sicurezza, rientrerebbero nella figura dello straining inteso come stress forzato sul posto di lavoro.
In questo contesto, dunque, si colloca la pronuncia della Cassazione in esame la quale, nel confermare il rigetto delle richieste risarcitorie della lavoratrice già pronunciato in grado di appello per mancanza di prova delle asserite condotte lesive ex art. 2087 c.c., ha precisato come lo straining sia configurabile in due “varianti”, e più precisamente:
- «quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie» (variante dolosa);
- «nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori» (variante colposa);
Nel caso di specie, in particolare, ci troviamo nel campo della responsabilità del datore di lavoro che colpevolmente (dunque anche in assenza dell’intento persecutorio o del semplice dolo generico) tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute secondo il paradigma dell’art. 2087 c.c.: ciò che conta, si legge nella motivazione in esame, «è il ricorrere o meno di una condizione ambientale stressogena giuridicamente rilevante».
Gli incerti confini di questa categoria giurisprudenziale vengono delineati nella sentenza in esame distinguendoli sia dal mobbing lavorativo, inteso quale pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli e illegittimi o anche singolarmente leciti, amalgamati da un’unitaria connotazione intenzionale, sia da quelle che chi scrive ha definito “altre condotte vessatorie” (EGE, TAMBASCO, Il lavoro molesto, cit., p. 35-36), consistenti nelle condotte che, pur in assenza di una intenzionalità persecutoria, configurino oggettivamente in sé e per sé un contenuto oggettivamente illecito, mortificante o vessatorio per il lavoratore (come ad esempio l’applicazione di una pluralità di sanzioni disciplinari illegittime, le condotte oggettivamente dequalificanti, si veda ex multis, Cass., 5 novembre 2012, n. 18927; Cass., 3 marzo 2016, n. 4222; Cass., 20 giugno 2018, n. 16256; Cass. civ., VI, 3 maggio 2019, n. 11739; nel merito, si segnala da ultimo Trib. Milano, 29 gennaio 2018, n. 2832; App. Milano, 22 marzo 2021, n. 475). In questa ipotesi, quindi, il singolo provvedimento datoriale oggettivamente illegittimo potrebbe comunque essere ascritto alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, nei limiti dei danni eventualmente a lui imputabili.
Quali comportamenti resterebbero fuori dall’area della giuridica rilevanza?
La pronuncia in oggetto lo specifica espressamente: si resta fuori dall’area della responsabilità «ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa» (conf. Cass., 29 gennaio 2013, n. 3028) oppure «tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili» (conf. Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972).
Nessuno spazio, quindi, possono avere i meri “disagi soggettivi” (intesi quali particolari reazioni soggettive dei singoli coinvolti dall’ambiente lavorativo) o le condizioni ordinariamente usuranti anche dal punto di vista psichico dovute alla ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, in cui tuttavia non siano concretamente ravvisati profili di colpa datoriale ex art. 2087 c.c.
Domenico Tambasco, avvocato in Milano