Eppur si muove: il nuovo sistema dei licenziamenti ritorsivi


  • A) Il sistema dell’art. 1345 c.c. e le mitologie giuridiche novecentesche

Quando si parla di licenziamenti ritorsivi è d’obbligo aprire il discorso con l’art. 1345 c.c., che costituisce tutt’ora una sorta di dogma indiscusso da parte della giurisprudenza e della dottrina unanime.
Si tratta di un “riflesso condizionato” di lunga data, influenzato dalle “mitologie giuridiche novecentesche” (cfr. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007) radicate nell’ormai esausta ideologia della codificazione, illuministica espressione della volontà politica colata nei “nomodotti”. In poche parole, il codice è il centro e l’interprete -sia esso giudice o commentatore- ne sarebbe il fedele esegeta (la “bois de loi”), indipendentemente dalle esigenze di effettività o di tutela dei destinatari delle norme stesse.
L’osservazione empirica del paesaggio sociale e l’attento ascolto dei bisogni delle persone, tuttavia, ha portato negli ultimi decenni a un differente sviluppo dell’ordinamento giuridico su impulso, anche in questo campo, della disciplina di derivazione eurounitaria.
Centrale, in tale nuovo approccio, è appunto l’esigenza di effettività dello strumento normativo, che deve fornire concreta protezione alle vittime di condotte particolarmente riprovevoli quali sono le ritorsioni, ingiuste e arbitrarie reazioni a comportamenti legittimi tenuti dal lavoratore o dalla lavoratrice, che hanno quale fulcro il faceredella vittima (a differenza delle discriminazioni che si basano sull’essere del soggetto discriminato).
La pronuncia in commento ci fornisce l’occasione per esplorare questo sistema che, come detto, solo in apparenza ha oggi nell’art. 1345 c.c. il suo nucleo fisso e immutabile.

  • B) L’ordinanza pronunciata da Cass., 9 gennaio 2024, n. 741: il principio di diritto.   

Viene in rilievo un’ordinanza della Cassazione (9 gennaio 2024, n. 741), già ampiamente commentata in altre sedi (cfr., da ultimo, PATRIZIO, Licenziamento ritorsivo: la sproporzione della sanzione espulsiva non determina ex se l’automatica qualificazione di illiceità del recesso datoriale, IUS lavoro, 7 marzo 2024).
Il caso riguarda il dipendente di una società con qualifica di gerente di negozio, il quale:

  • aveva subito un primo trasferimento dichiarato illegittimo dal Tribunale di Lodi, che aveva ordinato il ripristino del rapporto di lavoro presso la sede originaria;
  • era stato reintegrato nella precedente sede con ingiustificato ritardo (circa un anno);
  • era stato fatto oggetto di una serie di ulteriori condotte vessatorie, quali i) la sollecitazione rivolta dal superiore gerarchico ai colleghi di segnalare tutte le sue possibili mancanze; ii) la redazione da parte dei colleghi di un documento contenente rimostranze nei suoi confronti; iii) il mancato riscontro della direzione aziendale ad una mail in cui il dipendente chiedeva un incontro; iv) una conversazione registrata dal dipendente con il superiore gerarchico, in cui emergeva platealmente la volontà espulsiva dell’azienda; v) l’accanimento disciplinare a cui veniva sottoposto il ricorrente, con una pluralità di procedimenti (quattro) tutti impugnati giudizialmente.    

Successivamente, il lavoratore aveva ricevuto una quinta contestazione disciplinare, sfociata nel licenziamento per giusta causa oggetto di impugnativa giudiziale, in cui gli veniva addebitato di aver discusso con una collega, degenerata con lo strattonamento per un polso della donna e con il temporaneo impedimento (alla stessa) di allontanarsi dalla zona ove la discussione si svolgeva (il bancone del negozio ove i due lavoravano), frapponendosi il dipendente con il corpo. Veniva inoltre contestata al ricorrente la non corretta di disposizione della merce nel negozio e l’errore nell’esposizione di un cartellino relativo alle offerte promozionali.
Il licenziamento disciplinare derivato dall’ultimo procedimento disciplinare ha avuto un percorso processuale alquanto accidentato. Dichiarato legittimo nella fase sommaria del “rito Fornero”, veniva annullato dal Tribunale di Padova in sede di opposizione per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva, con correlativa applicazione della tutela indennitaria ex art. 18 comma 5 Stat. Lav. In sede di reclamo, tuttavia, la Corte d’Appello di Venezia riformava la decisione di primo grado, accertando la nullità del recesso in quanto ritorsivo e disponendo la reintegra del lavoratore ai sensi dell’art. 18, primo comma Stat. Lav.
Secondo i giudici veneziani, infatti, anche nel caso di carenza di proporzionalità il licenziamento non può considerarsi giustificato e, quindi, non sussiste la giusta causa che lo determina. Ne deriva che la mera esistenza del fatto addebitato non consente di escludere che vi sia un unico ed esclusivo motivo determinante il licenziamento costituito dall’intento ritorsivo. Ragionando diversamente, infatti, “basterebbe verificare la sussistenza di qualsiasi fatto, seppure di minimo rilievo disciplinare, per consentire al datore di licenziare il dipendente senza che l’intento di rappresaglia rilevi".
L’ultima puntata -almeno per ora- della vicenda in commento ha riservato un nuovo “colpo di scena”: la Cassazione, infatti, ha annullato con rinvio la pronuncia della Corte d’Appello di Venezia, sulla base del principio secondo cui “ove il potere di recesso sia esercitato a fronte di una condotta inadempiente di rilievo disciplinare, la concreta valutazione di gravità dell’addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva, se pure può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento, occorrendo, perché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinate, che la ragione addotta e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l’intimazione del licenziamento, sì che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo(Cass., 9 gennaio 2024, n. 741, cit., par. 23).  
L’indicazione desumibile dagli Ermellini è molto chiara e al contempo equilibrata: se può ritenersi corretta l’equazione difetto di proporzionalità = assenza di giusta causa operata dalla Corte d’Appello di Venezia al fine di escludere la ragione formalmente addotta dal datore di lavoro (integrando in questo modo il requisito dell’esclusività dell’intento ritorsivo), affinché possa configurarsi anche la natura determinante della volontà di ritorsione non è sufficiente l’automatico rilievo della sproporzione dell’intento disciplinare, a meno che non si parli di una sproporzione palese, vale a dire di un fatto “di modestissima rilevanza disciplinare” (es. una negligenza del lavoratore punibile con l’ammonizione o la censura in luogo del licenziamento per giusta causa).
Diversamente, il giudice potrà sì utilizzare la sproporzione come elemento presuntivo, ma dovrà comunque supportarla attraverso altre “concrete circostanze di fatto” che consentano di inferire l’esistenza di un intento pretestuoso e, quindi, punitivo da parte del datore di lavoro.
 Pare opportuno evidenziare come una più puntuale motivazione in sede di rinvio che, ad esempio, faccia riferimento al pregresso e prolungato contesto conflittuale/vessatorio realizzatosi ai danni del dipendente, potrebbe consentire di confermare l’originaria decisione dei giudici veneziani che -almeno a parere di chi scrive- sembra la soluzione più giusta nel caso di specie.              

  • C) La disciplina dei licenziamenti ritorsivi nel vecchio sistema dell’art. 1345 c.c.

Quello riportato nel precedente paragrafo è il cuore dell’ordinanza in commento, che si rivela di particolare interesse anche perché fa il “punto della situazione” in materia di licenziamenti ritorsivi, ribadendo una serie di principi di diritto vivente tutti enucleati dall’art. 1345 c.c., e in particolare:

  • Il licenziamento ritorsivo è definibile come "l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) e di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotatodella ingiustificata vendetta" (conf. Cass. 8 agosto 2011 n. 17087; Cass. 3 dicembre 2015, n. 24648).
  • Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è considerato un licenziamento nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c. (conf. Cass. 8 agosto 2011, n. 17087, cit.).
  •  Più precisamente, l’art. 1345 c.c. è una disposizione codicistica dettata in deroga al principio secondo cui i motivi dell’atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, che si applica anche agli atti unilaterali ai sensi dell’art. 1324 c.c. “laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali” (conf. Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 2005, n. 20197).
  • Il "motivo illecito" previsto dall’art. 1345 c.c. si colloca su un piano nettamente distinto dal (giustificato) motivo soggettivo e oggettivo di licenziamento, previsto dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966. Esso, infatti, rileva "indipendentemente dal motivo formalmente addotto", come recita l’art. 18, comma 1, della legge 300 del 1970, e deve avere efficacia determinativa esclusiva, rendendo in questo modo l’atto datoriale contrario ai valori ritenuti fondamentali per l’organizzazione sociale e determinandone la nullità (cfr. Cass., 9 gennaio 2024, n. 741, cit., par. 16 e 17).
  • Sussiste una netta distinzione tra il licenziamento ritorsivo e quello discriminatorio, sicché “diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, [nel licenziamento discriminatorio, n.d.r.] non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico” (cfr.  Cass. civ., sez. II, 5 aprile 2016, n. 6575).
  • Al contrario, l’accoglimento della domanda di nullità del licenziamento perché fondato su motivo illecito esige la prova che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo dì recesso e idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto (conf. Cass. 7 marzo 2023, n. 6838; Cass. civ., sez. III, 7 settembre 2022, n. 26399; Cass. civ., sez. III, 7 settembre 2022, n. 26395; Cass., 6 luglio 2022, n. 21465; Cass. 4 aprile 2019, n. 9468), dovendosi escludere la necessità di procedere a un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (conf. Cass. 7 marzo 2023, n. 6838, cit.; Cass. 9 marzo 2011, n. 5555). Ne deriva che la prova dell’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo “elide di per sé il motivo illecito” (cfr. Corte d’Appello Catanzaro, 14 agosto 2023, n. 934).
  • L’onere della prova dell’esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio, trattandosi "di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole" (cfr. Cass. 8 agosto 2011, n. 17087, cit.; Cass., 6 luglio 2022, n. 21465).

Come abbiamo visto in apertura, si tratta di un sistema incentrato sulla disciplina codicistica delineata dall’art. 1345 c.c. che, sul piano concreto, lascia ben poco margine alle esigenze di effettiva tutela a favore delle vittime di atti o di condotte vendicative, di cui il licenziamento è, solitamente, l’esito finale. 

  • D) Il nuovo sistema dei licenziamenti ritorsivi e il principio della protezione effettiva.

Se cambiamo angolo visuale utilizzando altre “lenti giuridiche”, potremo osservare una realtà radicalmente diversa dall’apparente uniformità dell’universo codicistico, che al contrario costringe la realtà nelle rigide “camicie di forza” fabbricate dal legislatore del 1942.
Al monocromo paesaggio dell’art. 1345 c.c. fa da controcanto l’ampio “spettro cromatico” delineato dalla normativa eurounitaria, recepita soprattutto (ma non solo) attraverso la legislazione antidiscriminatoria.
In questo nuovo sistema, il motivo illecito determinante perde quasi del tutto rilevanza nello scrutinio dei licenziamenti ritorsivi, attraverso la novella dell’art. 4 L. 604/1966 recentemente introdotta, quasi “di soppiatto”, dal d.lgs. 24/2023 (attuativo della Direttiva Ue 2019/1937) recante la disciplina in materia di whistleblowing.
Nello specifico, la disposizione contenuta nell’art. 24, terzo comma d.lgs. 24/2023 (in vigore dal 15 luglio 2023), annulla con un tratto di penna le differenze sussistenti tra il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo, estendendo anche al licenziamento “conseguente all’esercizio di un diritto” (ovverosia alla maggior parte dei recessi di natura ritorsiva) la tutela prevista dalla legislazione antidiscriminatoria (cfr. art. 28 d.lgs. 150/2011) in termini di onere probatorio (attenuato) e di risarcimento del danno (dissuasivo), escludendo quindi la più rigorosa disciplina codicistica prevista dall’art. 1345 c.c.
È il caso di notare, inoltre, come il nuovo art. 4 L. 604/1966 faccia espresso riferimento al licenziamento “conseguente” all’esercizio di un diritto, alla segnalazione, alla denuncia o alla divulgazione pubblica del whistleblower, in questo modo indicando la necessità di un semplice nesso di consequenzialità cronologica rispetto alle successive condotte o misure ritorsive.
Dal nuovo impianto delineato dall’art. 4 L. 604/1966 sembrerebbe rimanere fuori, pertanto, soltanto l’ipotesi residuale del licenziamento quale reazione all’adempimento di un dovere del dipendente (es. obbligo di denuncia di illeciti da parte del dipendente pubblico), che continua a essere regolato dall’art. 1345 c.c. 
A ciò si somma, tra le molteplici pieghe della legislazione speciale, una disciplina ad hoc nei confronti di alcune specifiche tipologie di ritorsioni, che possiamo definire come “qualificate” in quanto ispirate al principio di effettività della protezione di plurime categorie di soggetti.
Possiamo distinguere, in particolare:

  • la disciplina delle ritorsioni ai danni dei whistleblower, recentemente disciplinate dal d.lgs.24/2023 (attuativo della direttiva UE 2019/1937), che prevede l’inversione dell’onere della prova (art. 17, secondo comma), la presunzione di ritorsività di una serie di atti e di condotte rientranti nella black list (art. 17, quarto comma) e la presunzione del danno da ritorsione (art. 17, terzo comma) –  Cfr. TAMBASCO, La nuova disciplina del whistleblowing dopo il d.lgs. 24/2023, Milano, 2023, p. 61 e ss.; N. PARISI, Tutela, incentivi e premialità anche in prospettiva comparata, in Whistleblowing e cultura dell’integrità, a cura di V. DONINI, Roma, 2023, p. 280 e ss.; RIVA, BELLONI, La tutela del segnalante, in Compliance (a cura di S. BRANDES), Milano, 2023, p. 369 e ss.;
  • la regolamentazione delle ritorsioni nei confronti dei soggetti che abbiano realizzato attività diretta ad ottenere la parità di trattamento in materia di discriminazioni o per il contrasto di molestie per ragioni di sesso o genere (art. 26 comma 3 e 41-bis d.lgs. 198/2006), di religione, convinzioni personali, disabilità, età, nazionalità, orientamento sessuale (art. 4-bis d.lgs. 216/2003), di razza o di origine etnica (art. 4-bis d.lgs. 215/2003). Anche in questo caso, la legislazione speciale affianca all’onere probatorio attenuato (cfr. art. 40 d.lgs. 198/2006 e art. 28 quarto comma d.lgs. 150/2011; Cfr. ex plurimis, Cass. 2 novembre 2021, n. 31054; Cass., sez. lav., 15 novembre 2016, n. 23286; Cass., 5 giugno 2013 n. 14206; App. Milano, sez. lav., sentenza 17 giugno 2020 n. 380), il risarcimento del danno con finalità dissuasiva (art. 28, sesto comma d.lgs. 150/2011; cfr. Cass. civ., Sez. lav., 2 novembre 2021, n. 31071, cit.; Cass., sez. un., 21 luglio 2021, n. 20819; Cass. sez. lav., 15 dicembre 2020, n. 28646), la sanzione amministrativa della revoca dei benefici eventualmente ricevuti ai sensi di legge o dell’esclusione da qualsiasi agevolazione finanziaria, creditizia o appalto sottoscritto con amministrazioni pubbliche (art. 44 comma 11 d.lgs. 286/1998, art. 4-bis d.lgs. 215/2004, art. 4-bis d.lgs. 216/2003, art. 41 e 41 – bis d.lgs. 198/2006) nonché la definizione di un piano di rimozione delle molestie (art. 4 e 4-bis d.lgs. 215/2003; art. 4 e 4-bis d.lgs. 216/2003; art. 28 comma 5 d.lgs. 150/2011; art. 37 comma 2 e art. 41 – bis d.lgs. 198/2006) e la pubblicazione del provvedimento di condanna (art. 28 comma 7 d.lgs. 150/2011).     
  • La legislazione in materia di ritorsioni nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori che abbiano richiesto di fruire del lavoro agile ai sensi del d.lgs. 81/2017 (consistenti in qualsiasi misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro del richiedente), che si presumono nulle in quanto discriminatorie (art. 18 comma 3-bis d.lgs. 81/2017), applicandosi pertanto l’onere probatorio attenuato di cui all’art. 28, quarto comma d.lgs. 150/2011.
  • La disciplina delle ritorsioni nei confronti dei lavoratori o delle lavoratrici caregiver di cui all’art. 8, commi 4 e 5 d.lgs. 81/2015, che abbiano richiesto la trasformazione del contratto da full-time a part-time. In questa ipotesi, ogni misura organizzativa pregiudizievole delle condizioni di lavoro (quali il licenziamento, il demansionamento, il trasferimento etc.) si presume infatti nulla in quanto discriminatoria e/o ritorsiva (art. 8, comma 5-bis d.lgs. 81/2015, come introdotto dall’art. 5 comma 1, lett. b d.lgs. 105/2022, cfr. COLOSIMO, L’effettività delle tutele nei meccanismi di attenuazione e inversione dell’onere della prova, cit., p. 14 e ss.).
  • La disciplina delle ritorsioni nei confronti dei lavoratori o delle lavoratrici che abbiano richiesto o fruito -in relazione ad una disabilità propria o di coloro ai quali viene prestata assistenza e cura (caregiver)- dei benefici di cui all’art. 33 L. 104/1992, degli art. 33 e 42 d.lgs. 151/2001, dell’art. 18, comma 3 bis d.lgs. 81/2017 e dell’art. 8 d.lgs. 81/2015. Tali ritorsioni devono considerarsi discriminatorie e quindi nulle, applicandosi la disciplina processuale (anche sul piano dell’onere probatorio attenuato -cfr. art. 28 quarto comma d.lgs. 150/2011- e del danno dissuasivo -cfr. art. 28 sesto comma d.lgs. 150/2011) prevista dall’art. 28 del d.lgs. 150/2011 (cfr. art. 2-bis d.lgs. 104/1992, introdotto dall’art. 3, comma 1, lett. a d.lgs. 105/2022).
  • E) In sintesi: licenziamento ritorsivo e pluralismo giuridico

La morfologia del nuovo sistema approntato dal legislatore a tutela delle vittime di atti ritorsivi (tra cui rientra ovviamente il licenziamento, apice della volontà di rappresaglia) ha quindi una strutturazione binaria, essendo declinata sia oggettivamente attraverso la previsione della discriminatorietà dei licenziamenti conseguenti all’esercizio di un diritto (cfr. art. 4 L. 604/1966), sia soggettivamente con riguardo alle rappresaglie attuate nei confronti di specifiche categorie di soggetti (cfr. art. 17 d.lgs. 24/2023; art. 26 comma 3 e 41-bis d.lgs. 198/2006; art. 4-bis d.lgs. 216/2003; art. 4-bis d.lgs. 215/2003; art. 18 comma 3-bis d.lgs. 81/2017; art. 8, comma 5-bis d.lgs. 81/2015; art. 2-bis d.lgs. 104/1992).
In questo sistema, come abbiamo accennato, il ruolo rivestito dal vecchio art. 1345 c.c. è ormai minimale e sussidiario, operando soltanto nei rari casi in cui non sia invocabile l’una o l’altra forma di tutela.
Il nuovo panorama che si staglia dinanzi all’interprete e all’operatore del diritto, frutto del deposito “alluvionale” di una congerie di materiali legislativi provenienti principalmente dall’ordinamento comunitario, è la più significativa espressione di quel fenomeno contemporaneo che un’illuminata dottrina ha da tempo definito “pluralismo giuridico” (cfr. GROSSI, Il diritto civile in Italia fra moderno e posmoderno. Dal monismo legalistico al pluralismo giuridico, Milano, 2021).
 Fenomeno che, nel porre al centro dell’impianto normativo non il feticcio codicistico bensì la persona nelle sue molteplici e multiformi interazioni sociali, risponde pienamente all’istanza costituzionale di un diritto rivolto alla sostanza e non alla forma della tutela; il che significa volgere lo sguardo, attraverso il medium dell’effettività, alla “carnalità del diritto” (cfr. AA.VV., Il diritto come forma dell’esperienza. Per Paolo Grossi, Milano, 2023, I, p. 126),ovverosia alla cruda realtà della vita.   
      
Domenico Tambasco, avvocato in Milano