Lo SLC nella giurisprudenza di legittimità: nuovi sviluppi


(Da Igiene e Sicurezza del Lavoro – Maggio 2023)

di Annalisa Rosiello e Domenico Tambasco

Straining: dal “mobbing attenuatoallo stress forzato: Cass. civ. n. 3692/2023

Quella che in altra sede abbiamo definito la “lunga marcia” dello stress lavoro-correlato (1) si sta evolvendo, nell’incessante moto della law in action, in qualcosa di nuovo.

Un significativo sintomo di questa trasformazione è rappresentato dalla recente pronuncia della Cass. civ., sez. lav., ord., 7 febbraio 2023, n. 3692, relativa ad un caso di vessazioni subite da un dipendente amministrativo universitario, “derubricato” dai giudici di merito ad un semplice demansionamento in violazione dell’art. 52, D.Lgs. n. 165/2001 ed esauritosi nella liquidazione unicamente del danno biologico differenziale, in conformità a una tendenza giurisprudenziale volta a valorizzare la componente biologica quale parametro decisivo ai fini del risarcimento a favore della vittima (2).

La pronuncia in commento, a prescindere dalla sua adesione all’orientamento ormai dominante in materia di accertamento in via presuntiva del danno patrimoniale alla professionalità (3), rileva per il deciso “passo in avanti” compiuto in tema di interpretazione dell’obbligo generale di protezione posto dall’art. 2087 cod. civ. a carico del datore di lavoro.

Partendo dalla censura svolta dal ricorrente (che aveva lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ. relativamente all’esclusione, nel caso di specie, della figura del mobbing), la Corte di cassazione decide di abbandonare totalmente la prospettiva “sociologica” adottata dalla giurisprudenza che ha dato vita alle figure del mobbing e dello straining (4), virando decisamente verso il riconoscimento della più ampia – e omnicomprensiva – categoria dello stress lavorativo.

In quest’opera di nuova fattura giurisprudenziale, gli ermellini utilizzano alcuni materiali propri della più recente nozione di straining, passata dal “mobbing attenuato” allo “stress forzato” (5). Ecco dunque il riconoscimento della responsabilità contrattuale del datore di lavoro il quale consenta, anche colposamente, il mantenersi di “un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori”, che ha fonte nell’obbligo positivo (riconducibile all’art. 2087 cod. civ.) di evitare lo svolgimento della prestazione lavorativa “con modalità ed in un contesto indebitamente stressogeno”. Responsabilità configurabile – precisano opportunamente i giudici – solo allorché l’inadempimento si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente, secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (che ricomprende, a norma dell’art. 1225 cod. civ., la limitazione risarcitoria ai soli danni prevedibili al momento del sorgere dell’obbligazione, salvo l’ipotesi di dolo del debitore (6)).

Come viene declinato questo principio di diritto nel caso concreto?

È presto detto: di fronte a un accertato demansionamento e a una totale privazione delle mansioni, accompagnati da un trasferimento immotivato e dall’esercizio pretestuoso della potestà disciplinare, i giudici di legittimità non si preoccupano più di misurare la sussumibilità dei comportamenti nelle categorie del mobbing o dello straining coniate dalla psicologia del lavoro. Al contrario, con un procedimento logico-argomentativo molto più lineare, viene oggettivamente accertato “un inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell’art. 2087 c.c.”.

Quello che il giudice deve indagare, secondo la Corte di cassazione, è semplicemente l’esistenza di “una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato”, tale da “provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta a incidere sul suo” (del lavoratore) “diritto alla salute, costituzionalmente tutelato”.

Una volta accertata in concreto la obiettiva sussistenza di questo quadro, il giudicante dovrà inscriverlo all’interno della cornice normativa dell’art. 2087 cod. civ., che estende i doveri di sicurezza del datore di lavoro anche alla previsione di ogni possibile conseguenza negativa derivante dalla “mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato”.

Eccoci giunti a uno snodo decisivo: ci troviamo proprio di fronte a quelle discrepanze tra organizzazione lavorativa e persone, che rappresentano una delle tre linee di tendenza in cui si articola la “polifunzionalità” dello stress lavoro-correlato (7) che, ricordiamo, ha nell’ordinamento italiano un saldo addentellato normativo nella previsione legislativa prevenzionistica dell’art. nell’art. 28, comma 1, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (e nel correlativo riferimento all’Accordo Quadro Europeo dell’8 ottobre 2004).

La costruzione approntata dai giudici di legittimità ha linee autenticamente innovative: il perimetro dello stress rilevante ai fini dell’art. 2087 cod. civ. viene infatti esteso a tal punto da ricomprendervi “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi”. Appare evidente, nella inedita definizione di stress lavorativo coniata dalla pronuncia in commento, l’intenzione di ancorare teleologicamente il baricentro della protezione sugli effetti più che sulla natura della condotta datoriale (8).

Lo stress lavorativo da superlavoro: Cass.civ., sez. lav., ord., 28 febbraio 2023, n. 6008

Un primo corollario dei principi enunciati nella citata ordinanza si rinviene in una pronuncia immediatamente successiva. Partendo infatti dall’esame dell’altra “linea di tendenza” in cui si articola lo stress lavoro-correlato, ovvero quella quantitativa, l’ordinanza della Cass. civ., sez. lav., ord., 28 febbraio 2023, n. 6008 ha ripreso e approfondito la questione dell’onere probatorio in tema di superlavoro e di danno da usura psico-fisica.

Si tratta del caso di un dirigente medico di primo livello di una Azienda Sanitaria, che aveva chiesto la condanna al risarcimento del danno biologico conseguente all’infarto del miocardio subito a causa del sottodimensionamento dell’organico, essendo stato costretto per molti anni a sopportare intollerabili ritmi di lavoro.

Il dirigente medico ha censurato la sentenza della Corte d’Appello che aveva respinto la domanda assumendo, con riguardo specifico all’onere di allegazione e prova, che al lavoratore spetti di allegare e dimostrare:

a) le condizioni nocive (nello specifico il superlavoro);

b) il danno (derivante nello specifico dall’infarto);

c) il nesso causale tra queste e l’evento;

mentre spetta al datore di lavoro provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero l’impossibilità di evitarlo (9).

La Corte d’Appello, pur partendo da una corretta premessa di principio, respingeva la domanda per il mancato assolvimento dell’onere della prova del presupposto fattuale (an), affermando che gravasse sul lavoratore allegare e provare specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di misure di sicurezza, nonché indicare la violazione di “ben determinate norme di sicurezza” avuto riguardo al settore specifico e ai suoi standard.

La censura della Corte di cassazione riguarda proprio l’aspetto della concreta calibratura dell’onere probatorio della nocività dell’ambiente lavorativo rispetto al caso concreto che, nell’ipotesi del c.d. superlavoro, consiste nello svolgimento stesso della prestazione oltre la normale tollerabilità (cfr. Cass. civ., sez. lav., ord., 28 novembre 2022, n. 34968, cit.).

Condizioni di lavoro insalubri e nocive

Con riguardo alle condizioni di lavoro insalubri e nocive (an) la Cassazione, uniformandosi a propri precedenti recentissimi (10), annulla la sentenza ribadendo come nei giudizi di responsabilità del datore di lavoro per infortunio, il dipendente sia gravato della prova della lesività dell’ambiente di lavoro (oltreché del danno e del nesso causale), mentre spetti al datore di lavoro la dimostrazione di aver adottato tutte le misure ragionevolmente possibili per evitare il danno. Nello specifico caso del superlavoro, quindi, il lavoratore dovrà limitarsi ad allegare (e provare) unicamente “lo svolgimento prolungato di prestazioni eccedenti un normale e tollerabile orario lavorativo”, non essendo invece a suo carico anche l’onere di dimostrare la violazione di ben determinate norme di sicurezza. Viceversa, sarà il datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia dimostrato le modalità qualitative e quantitative improprie per ritmi e limiti organizzativi – a dover provare che i carichi di lavoro siano stati “normali, congrui e tollerabili” o che si sia verificata “una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile”. Inoltre, nel caso in cui dal superlavoro (volontario e/o imposto dalle disfunzioni organizzative) sia derivato un danno, spetterà al datore di lavoro dimostrare – per essere esonerato dal risarcimento – che il lavoratore ha posto in essere condotte contrarie alle direttive impartite in base alla normativa sulla sicurezza o talmente imprevedibili da rappresentare esse stesse cause di esclusione di responsabilità. Il datore di lavoro, pertanto, risponde dei danni alla salute da superlavoro non solo nel caso in cui richieda prestazioni lavorative oltre la normale tollerabilità, ma anche quando non ottemperi al dovere specifico di impedire – anche attraverso un’adeguata vigilanza – che il lavoratore, benché spontaneamente, esegua il lavoro con modalità che si rivelano nocive per la propria salute (11).

Danno

Con riguardo al danno (quantum), nell’ordinanza in commento si censura la pronuncia della Corte d’Appello secondo cui sarebbe stato il ricorrente a dover allegare e dimostrare quali concreti svantaggi, privazioni ed ostacoli siano derivati dalla menomazione. Afferma, infatti, la Cassazione che è “sufficiente l’allegazione dell’evento dannoso (infarto) e del conseguente danno alla salute, temporaneo e permanente, mentre l’allegazione di altri ‘concreti svantaggi’ è necessaria solo ai fini della eventuale richiesta di personalizzazione del danno”. E ciò tramite CTU, c.d. percipiente, ovvero volta all’accertamento di fatti non altrimenti accertabili e dimostrabili, se non tramite specifiche cognizioni mediche.

Nesso eziologico

Con riguardo all’accertamento del nesso di causaeffetto (c.d. nesso eziologico), la pronuncia in commento ritiene rilevante, in assenza di elementi istruttori di segno contrario, il fatto che sia stata riconosciuta in sede amministrativa la causa di servizio ai fini dell’equo compenso.

Nel richiamare i propri precedenti, la Cassazione afferma al riguardo “che ove sia stata accertata in sede di equo indennizzo la derivazione causale della patologia dall’ambiente di lavoro, opera a favore del lavoratore l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 2087 cod. civ., di modo che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso”.

Nel caso di specie, infatti, era stata acquisita agli atti documentazione tecnica che attestava il riconoscimento in sede amministrativa del nesso causale: il giudice, nei limiti del prudente apprezzamento del materiale istruttorio disponibile (art. 116 c.p.c.), era quindi tenuto ad attribuire una specifica rilevanza probatoria a detti elementi.

Ricadute pratiche: onere della prova e conflittualità lavorativa

Due paiono essere le ricadute operative più rilevanti, a una prima lettura delle pronunce esaminate. In primo luogo, attrarre la categoria dello stress lavorativo nell’alveo della responsabilità contrattuale attraverso l’obbligo datoriale di protezione dell’integrità psicofisica ex art. 2087 cod. civ., significa agevolare notevolmente l’onere probatorio a carico del prestatore di lavoro, essendo del tutto irrilevante l’elemento soggettivo nell’accertamento dell’inadempimento. Come osservato da un’acuta dottrina (12), infatti, ciò che rileva nel sorgere della responsabilità ex contractu non è la colpa del datore di lavoro, bensì la obiettiva violazione dell’obbligo di protezione ex art. 2087 cod. civ., ovvero il venir meno al “programma di comportamento”, che costituisce il proprium di ogni rapporto negoziale. Alleggerimento probatorio che, finalmente, pare allontanare in modo definitivo l’applicazione della tutela ex art. 2087 cod. civ. dagli eccessi di un diritto vivente che, in una sorta di cortocircuito tra scienze giuridiche e scienze psicologiche, ha fino ad oggi richiesto la dimostrazione di un parapenalistico “intento persecutorio” ogniqualvolta l’inadempimento datoriale fosse qualificabile dalla psicologia del lavoro come mobbing o straining (13). L’applicazione dei generali principi di diritto desumibili dall’art. 1218 cod. civ., infatti, evidenzia operativamente come, se da un lato il lavoratore dovrebbe semplicemente limitarsi ad allegare (e provare) l’inadempimento datoriale (consistente, ad esempio, nell’aver tollerato un ambiente lavorativo conflittuale e stressogeno), oltre a provare il danno patito in connessione eziologica con l’asserito inadempimento, dall’altro lato, invece, dovrebbe essere il datore di lavoro a dimostrare l’esatto adempimento, o attraverso la prova della mancanza in concreto di un ambiente lavorativo nocivo, o dimostrando l’impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile. Questo riparto probatorio è già stato affermato dalla consolidata giurisprudenza (14). In secondo luogo, la nuova prospettiva giurisprudenziale che estende l’applicazione dei doveri di protezione ex art. 2087 cod. civ. anche alle situazioni lavorative conflittuali di stress forzato, rimodula completamente la definizione della “conflittualità lavorativa”. Se in un recente passato, infatti, la giurisprudenza ha considerato la litigiosità e gli screzi lavorativi come causa di esclusione dell’intento persecutorio e, conseguentemente, come sintomo dell’inesistenza del mobbing (15), oggi invece il nuovo orientamento valorizza di fatto la conflittualità quale “evento sentinella” dello stress lavorativo, analogamente alla invalsa prassi amministrativa in materia (16).