La “lunga marcia” dello stress lavoro-correlato nella giurisprudenza


(Da Igiene e Sicurezza del Lavoro – Febbraio 2023)

di Annalisa Rosiello e Domenico Tambasco

La stabilizzazione dello stress lavoro correlato nella giurisprudenza di legittimità

Alcune pronunce della Corte di cassazione, tutte pubblicate nel mese di novembre dell’anno appena trascorso e a breve distanza l’una dall’altra, hanno segnato l’ingresso – nel lessico di legittimità – dello stress lavorativo quale categoria “polifunzionale”, idonea a risolvere le più disparate e difficoltose questioni in materia di conflittualità lavorativa.

In particolare, il minimo comune denominatore tra due provvedimenti (Cass. civ., sez. lav., 11 novembre 2022, n. 33428 e Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2022, n. 33639 (1)) e l’ordinanza incommento (Cass. civ. sez. lav., 30 novembre 2022, n. 35235) è costituito dal “recupero” di domande originariamente rivolte all’accertamento di condotte mobbizzanti, rigettate nel merito per l’assenza dell’intento persecutorio. Tale recupero si sostanzia, nella citata giurisprudenza di legittimità, attraverso la valorizzazione di una “prospettiva di progressiva rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori”, imponendo dunque come prioritaria “l’obbligazione di sicurezza gravante sul datore di lavoro, che consente di configurare la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento (imputabile anche solo per colpa) che si ponga in nesso causale con un danno alla salute, secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.)” (2).

Ecco quindi emergere spontaneamente, nella sintassi giurisprudenziale, la categoria dello stress lavorocorrelato o stress lavorativo che, a differenza del mobbing e dello straining, aventi mera natura medico-legale priva di autonoma rilevanza ai fini giuridici (3), ha invece un saldo aggancio normativo nell’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, in cui – attraverso il riferimento all’Accordo Quadro Europeo dell’8 ottobre 2004 – viene definito come “una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative”, potendo “portare a cambiamenti nel comportamento e ad una riduzione dell’efficienza nel lavoro” ed essendo causato “da fattori diversi, come ad esempio il contenuto del lavoro, la sua organizzazione, l’ambiente, la scarsa comunicazione, etc.”.

Ed è ciò che, come abbiamo accennato, si è verificato anche nel caso sottoposto all’esame della Cass. civ. sez. lav., ord., 30 novembre 2022, n. 35235, in cui gli
Ermellini – facendo un passo avanti rispetto alle precedenti pronunce – hanno affermato che l’accertamento dell’esistenza di danni da stress lavoro-correlato “non può considerarsi impedito dall’eventuale originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing”, potendo invece il giudice, anche d’ufficio, modificare l’originaria impostazione della domanda, “in quanto si tratta piuttosto di una operazione di esatta qualificazione giuridica dell’azione che il giudice del merito è tenuto ad effettuare, interpretando il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate, purché lasciando inalterati sia il petitum che la causa
petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto” (4). Questo vuol dire affermare, in definitiva, il poteredovere del giudice a cui sia prospettato in ricorso un caso di conflittualità interpersonale sul lavoro (nell’alternativa configurazione del mobbing, dello straining, del work stalking, del bossing, del bullying, della
violenza o delle molestie), di riqualificare la fattispecie concreta – ove ne sussistano i presupposti – nel più ampio (ed omnicomprensivo) paradigma dello stress lavorativo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2087 cod. civ. e dell’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 (5). Siamo proprio di fronte a una concreta manifestazione, nella law in action, dell’essenza ontologicamente “polifunzionale” dello stress lavoro-correlato.


Lo stress lavorativo all’esame del merito

Analoghi movimenti si registrano nella più attenta giurisprudenza di merito, soprattutto in alcune interessanti pronunce del Tribunale di Torino.
Rimandando al commento alla sentenza del Trib. Torino, sez. lav., 17 agosto 2022, n. 908 (6), sent, l’analisi si concentra ora sul provvedimento del Trib. Torino, sez. lav., 25 gennaio 2022, riguardante il caso di un consulente bancario, il quale lamentava di aver sofferto di stress lavoro-correlato per cinque anni, a causa della pressione e del controllo subìti in relazione alle mansioni di consulente clienti retail: a causa di ciò, nonché di una serie di comportamenti asseritamente vessatori realizzati dal datore di lavoro in relazione ai quali evocava la fattispecie del mobbing, il ricorrente cadeva in una grave sindrome ansioso-depressiva, per cui chiedeva il risarcimento dei danni.
Esclusa la sussistenza di una dinamica mobbizzante a causa dell’assenza sia dell’elemento oggettivo (essendo i fatti “per natura, numero e collocazione nel tempo comunque insufficienti ad integrare il concetto di mobbing”) sia dell’intento persecutorio (mancando “un intento di persecuzione ed emarginazione del ricorrente finalizzato all’obiettivo di escluderlo dal gruppo”), il giudice torinese cambia prospettiva, riqualificando i fatti attraverso le lenti
dello stress lavoro-correlato che, costituendo un concreto rischio per la salute e la sicurezza, definisce un preciso obbligo di tutela a carico del datore di lavoro (art. 5, Accordo Quadro Europeo dell’8 ottobre 2004).
Nel caso di specie, l’approfondita analisi del Tribunale di Torino si concentra infatti sulla “condotta commerciale aggressiva della convenuta, che si traduce in un controllo continuo e martellante sui venditori, sulla loro attività e sui risultati, e in un serrato e costante invito a produrre di più”. In particolare, tanto le testimonianze quanto l’ingente documentazione versata in atti (costituita principalmente da migliaia di e-mail), hanno consentito di accertare i caratteri “seriamente stressogeni” del contesto lavorativo in cui il ricorrente si è trovato ad operare come consulente, considerando:
a) la natura dell’attività svolta, improntata al risultato (vendita di prodotti finanziari e postali) e connotata da un fisiologico profilo di incertezza, dovuto alla mancanza di un nesso di proporzionalità diretta tra l’impegno profuso ed il risultato ottenuto, non di rado produttivo di ansia e frustrazione (definito anche quale “stress determinato dalla necessità di realizzare risultati che non sono garantiti dal proprio lavoro”);
b) la concreta pressione esercitata sul dipendente attraverso una esasperante attività di monitoraggio e di controllo, costituita da:

—e-mail rivolte collettivamente a tutti i consulenti, con cui dapprima venivano assegnati gli obiettivi e poi se ne sollecitava il perseguimento, sottolineando i risultati in tempo reale e confrontandoli con quelli degli altri uffici;
—controllo dell’agenda elettronica dei singoli consulenti da parte del direttore dell’ufficio postale e di tutta la scala gerarchica della struttura commerciale;
— e-mail rivolte al singolo consulente e/o al suo direttore dalla struttura commerciale che censuravano l’inadeguatezza della gestione dell’agenda e dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi, nonché telefonate e interventi di persona con lo stesso scopo; visite regolari all’ufficio postale, anche senza preavviso;
— affiancamento negli appuntamenti; controlli e interventi diretti del direttore dell’ufficio postale sull’attività del consulente, anche su specifica sollecitazione
della struttura commerciale;
—continuo coinvolgimento dei superiori, realizzato sia inviando loro per conoscenza i monitoraggi, solleciti e rimproveri, sia evidenziando il loro interesse al risultato e la responsabilità della struttura commerciale nei loro confronti.

Ne deriva che “il connotato stressogeno di queste modalità operative ha comportato l’inevitabile accrescimento dell’ansia e della frustrazione dovuto al fatto di essere sollecitato, messo a confronto, rimproverato, caricato di sensi di colpa nei confronti dei colleghi”, stress accresciuto sia dalle forme ripetitive sia dalla notevole frequenza dei controlli realizzati. In definitiva tanto la natura dell’attività lavorativa, costituita dall’imposizione continua di obiettivi di vendita serrati e difficili da raggiungere, quanto le concrete modalità operative, realizzate con tecniche pressanti accompagnate da continui controlli e sollecitazioni, sebbene finalizzati a costruire un sistema commerciale volto a garantire ed incrementare la produzione, non ne escludono affatto la rilevanza fortemente stressogena né esonerano il datore di lavoro dal cogente obbligo di tutela dei dipendenti, obbligo inteso nel suo significato giuridicamente più corretto di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”, così come elaborato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e fatto proprio dall’art. 2, D.Lgs. n. 81/2008.
Siamo di fronte ad uno snodo decisivo e controverso: il labile confine tra supporto e pressione, tra modalità lavorative idonee a motivare e aiutare il dipendente alla ricerca e al raggiungimento del risultato da un lato e, dall’altro, un ambiente lavorativo tossico e stressogeno. Il discrimine di questo confine, come correttamente rilevato dal giudice torinese, è determinato anche dalla personalità del soggetto che ne è destinatario (profilo soggettivo), oltre che dai modi e dai tempi dell’attività lavorativa (profilo oggettivo). Ecco introdotto un tema che si rivela alquanto scivoloso e, soprattutto, si connette strettamente alla
valutazione del caso concreto: la rilevanza soggettiva delle situazioni lavorative stressogene, che si traduce nella variabilità delle risposte individuali ai medesimi
fattori (stressors). Secondo la pronuncia in esame, ciò “non esime certo il datore di lavoro dall’onere di vigilare sull’impatto di tali situazioni sui singoli dipendenti e di porre in essere azioni preventive, volte a valutare il loro impatto sulle singole personalità e ad intervenire per evitarne le conseguenze dannose”. L’utilizzo della categoria dello stress lavoro-correlato, attraverso la mediazione dell’art. 2087 cod. civ. e dell’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, si espande in questo caso fino a delineare una tutela ed una protezione davvero ad “ampio raggio”, giungendo nel caso di specie a riconoscere la sussistenza di una situazione lavorativa stressogena nociva per la salute, attraverso la condanna del datore di lavoro al risarcimento di un danno non patrimoniale pari a 36.908,19 euro.

Un orientamento contrastante

Diametralmente opposta alla giurisprudenza sopra analizzata appare la sentenza della Corte d’Appello Venezia, sez. lav., 23 novembre 2022, n. 656, sent. Il caso affrontato riguarda il licenziamento per superamento del periodo di comporto di una lavoratrice addetta al reparto gastronomia di un supermercato, la quale, a seguito dell’invio in trasferta presso un altro punto vendita, lamentava l’insorgenza di una sindrome depressiva derivante da stress lavorativo.
Il giudice di primo grado accertava l’illegittimità del licenziamento affermando che, se da un lato il primo periodo di malattia (dal 27 ottobre 2018 al 10 marzo 2019) non poteva essere addebitato a responsabilità datoriale, al contrario il secondo periodo di assenza (dal 21 maggio 2019 al 10 luglio 2019) doveva essere ascritto alla società, resasi inadempiente nel ricollocare nuovamente la lavoratrice presso la sede di lavoro originaria, dopo il suo rientro dal primo lungo periodo di malattia. Infatti, secondo il Tribunale di Venezia, era onere della datrice di lavoro verificare se tale spostamento (e gli orari imposti) fossero compatibili con le condizioni psicofisiche della dipendente, considerato che la stessa aveva già segnalato, attraverso la propria organizzazione sindacale, una grave situazione di malessere e di difficoltà rispetto alla trasferta. Questi elementi, secondo il giudice, avrebbero dovuto indurre il datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. a valutare, con accurato accertamento medico, se la prosecuzione della trasferta fosse compatibile con la situazione della dipendente, valorizzando in questo modo l’incidenza dei fattori potenzialmente stressogeni sulla personalità della lavoratrice.
L’esito della causa veniva invece totalmente ribaltato dalla Corte d’Appello di Venezia, che, dopo aver escluso la natura vessatoria delle condotte datoriali
(in ragione della sussistenza di effettive ragioni organizzative tali da escludere l’ipotizzato straining), operava un attento scrutinio sugli orari svolti dalla lavoratrice e, in particolare, sulla insussistenza di una situazione di “distress” legata alle concrete modalità lavorative.
Nella motivazione della sentenza è dato leggere, infatti, che anche in presenza di orari “non leggeri”, è necessario contemperare le esigenze del punto vendita con le esigenze lavorative. Ne deriva che, pur in presenza di molti giorni (circa 28) in cui la lavoratrice aveva lavorato per 11, 12 o anche 13 ore, con una lunghissima pausa pranzo di 3 ore, la stessa aveva comunque poi fruito di due giorni di riposo settimanali (domenica e lunedì), senza comunque mai svolgere un orario di lavoro complessivamente superiore rispetto a quello contrattuale. La questione dello stress lavorativo, quindi, sarebbe potuta rilevare soltanto con riferimento alla pausa pranzo molto lunga, nel caso in cui avesse costretto la lavoratrice a rimanere lontana da casa per moltissime ore, in violazione dell’art. 7, D.Lgs. n. 66/2003, che prescrive il diritto del lavoratore e della lavoratrice a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore. Tuttavia, anche sotto tale profilo, non emergeva nessuna violazione giuridicamente rilevante essendo tale obbligo sempre stato rispettato, non potendosi considerare ai fini del riposo obbligatorio “il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo della trasferta”.
In definitiva, richiamando anche i principi della più recente giurisprudenza di legittimità (7), secondo cui si resta al di fuori della responsabilità ex art. 2087 cod. civ. ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (8) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (9), il semplice “mal d’ufficio dovuto ad una amplificazione da parte della lavoratrice delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno”, non può assumere alcuna rilevanza giuridica in assenza di un assetto organizzativo obiettivamente stressogeno.

Conclusioni

Alcune brevi considerazioni si rendono necessarie al termine di questa veloce panoramica. È evidente l’emersione, tanto nella giurisprudenza di legittimità quanto in quella di merito, di un orientamento sempre più consistente volto all’analisi critica dei fattori organizzativi, piuttosto che all’accertamento delle singole condotte individuali. Questa analisi porta, come abbiamo visto, alla rilevanza dello stress lavoro-correlato quale categoria in grado di spiegare e disciplinare, in modo unitario, una pluralità di disfunzioni dell’assetto lavorativo (10) che coinvolgono sia la prestazione di lavoro sul piano quantitativo (superlavoro, usura psicofisica) e/o qualitativo (demansionamento, svuotamento della professionalità, controlli esasperati, mancata conciliazione vita-lavoro, insalubrità del luogo di lavoro) sia le relazioni interpersonali (condotte
persecutorie, violenze, molestie).
In tale contesto, un tema sembra imporsi all’attenzione, come quello più controverso e di difficile applicazione: la rilevanza, nella valutazione dello
stress lavorativo, dell’impatto dei fattori stressogeni sulla personalità del soggetto esposto (profilo soggettivo) e delle obiettive modalità di articolazione dell’attività
lavorativa (profilo oggettivo).
Se da un lato, come abbiamo visto, l’innovativo orientamento della giurisprudenza torinese ha un approccio “interazionista”, volto a valorizzare la reciproca interdipendenza tra persona e ambiente lavorativo (espandendo al massimo il raggio operativo dell’art. 2087 cod. civ. e imponendo un correlativo maggiore onere di protezione a carico del datore di lavoro e del medico competente (11)), dall’altro la recente pronuncia della Corte d’Appello di Venezia pone al centro della valutazione giudiziale esclusivamente l’assetto organizzativo nella sua dimensione oggettiva.
È questa, dunque, la frontiera su cui saranno tracciati i futuri confini dello stress lavoro-correlato.


(1) Annalisa Rosiello e Domenico Tambasco, “Condotte persecutorie (mobbing e straining) e stress lavoro-correlato: la nuova concezione sistemica della Cassazione”, in IUS lavoro, 14 dicembre 2022.
(2) Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2022, n. 33639, sent., cit., par. 2.3.4.
(3) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 10 dicembre 2019, n. 32257; Cass. civ., sez. lav., 19 febbraio 2016, n. 3291; v. commento a quest’ultima sentenza di Rosiello e Costantino, “Mobbing e straining sono nozioni di tipo medico-legale: entrambe trovano tutela nell’art. 2087 c.c.”, in Giustiziacivile.com, 2016.

(4) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 1° settembre 2004, n. 17610; Cass. civ., sez. lav., 23 marzo 2005, n. 6326 e Cass. civ., sez. lav., 12 aprile 2006, n. 8519.
(5) Si veda anche Trib. Milano, sez. lav., est. Saioni, 25 novembre 2022, che ha ritenuto sufficientemente provati comportamenti ostili e marginalizzanti nei riguardi di una dipendente; dette condotte, rilevanti ex art. 2087 cod. civ., hanno provocato una condizione stressogena fonte di patimento psicofisico, causato dai descritti comportamenti, provenienti anche da atti e decisioni di superiori gerarchici e colleghi, e ha disposto con sentenza parziale la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali, rinviando a CTU per la quantificazione dei danni non patrimoniali.
(6) A. Rosiello, D. Tambasco, “Il danno da stress lavorativo: una categoria “polifunzionale” all’orizzonte?”, inIUS lavoro, 8 novembre 2022.

(7) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 23 maggio 2022, n. 16580, ord., con nota di D. Tambasco, “La nuova vita dello straining, dal mobbing attenuato allo stress forzato”, in Labor, 29 maggio 2022.
(8) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 29 gennaio 2013, n. 3028.
(9) Cfr. Cass. civ., SS.UU., 22 febbraio 2010, n. 4063, sent.; Cass. civ., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972, sent.
(10) Le disfunzioni o discrepanze dell’assetto organizzativo (così classificate da chi scrive seguendo un approccio “sistemico” analogo all’impostazione della circ. 17 dicembre 2003, n. 71, che parlava di “costrittività organizzativa”), sono definite dall’Agenzia Europea per la salute esicurezza sul lavoro quali rischi psicosociali, secondo un’impostazione più legata alla persona esposta agli agenti stressogeni (o stressors).
(11) Si veda Cass. pen., sez. IV, 2 luglio 2020, n. 19856, sent., secondo cui il medico competente risponde, nella qualità di titolare di un’autonoma posizione di garanzia, delle fattispecie di evento che risultano di volta in volta integrate dall’omissione colposa delle regole cautelari poste a presidio della salvaguardia del bene giuridico – salute dei lavoratori – sui luoghi di lavoro, direttamente riconducibili alla sua specifica funzione di controllo delle fonti di pericolo istituzionalmente attribuitagli dall’ordinamento giuridico.